C'è un punto, non lontano da qui, dove la laguna smette di essere laguna e diventa mare.
Un punto dove, nella mia fantasia di bambino, le chiatte e i barchini diventavano galere di mercanti e galeoni di pirati, pronti in un modo o nell'altro a conquistare il mondo.
Quel punto esiste, lo so: ma io non sono mai stato capace di trovarlo.
L'ho cercato più di una volta, con vari tipi di imbarcazioni. La prima a otto o nove anni; con mio padre che rideva sotto i baffi, ma sotto sotto era orgoglioso di quel suo figlioletto, così determinato a trovare "il confine" e a contrassegnarlo con una X come per una mappa del tesoro, oppure con una linea tremolante, come se dall'altra parte ci fossero veramente i leoni che si paventavano nelle mappe medievali.
Poi, smaltita quella che forse è stata la prima delusione della mia vita, ci sono tornato da adolescente, o da quasi adulto, con convinzione inversamente proporzionale al disagio che cominciavo a provare solcando le acque.
Strano, no? Vivere in un'isola e avere paura del mare.
Ecco, forse questa paura, questo disagio deriva proprio dal fatto che in realtà un confine non si può tracciare, perché le onde che vedi adesso non sono le stesse che vedrai fra cinque minuti o fra cinque anni. Perché se anche un folle decidesse di tuffarsi esattamente in quel punto, non potresti mai dire se si trova dentro o fuori, o quando smette di essere un bagnante per diventare un esploratore.
Ma i saggi dicono che l'unico modo di vincere una paura è quello di prendervi le misure. Ecco perché, ogni volta che le gambe mi obbediscono - il ché con gli anni succede sempre più di rado - mi trascino verso quella lingua di terraferma che si affaccia sul confine.
E' l'unico modo che ho per non sentirmi affondare, nell'attesa.